lunedì 19 gennaio 2009

Notarelle sul libro

Nell'ambiente editoriale è molto comune un'affermazione: "Noi non produciamo mattonelle (o salami, o auto, ecc.)" Il sottotesto è che una casa editrice è a un livello superiore, produce, sì, ma non meri oggetti materiali. Ma non è che le cose stiano proprio così. Anzi.
Il libro è un oggetto. Un oggetto materiale, materialissimo. Se c'è un motivo per cui, diversamente dalla musica o dalle cassette video, si può immaginare che il mercato del libro risentirà solo fino a un certo punto della rivoluzione prodotta da Internet, è questo. Perchè quando si prende un libro non si prendono semplicemente le parole che contiene, ma altrettanto l'oggetto su cui sono riportate.
Amare i libri è anche questo. Non è semplicemente la stessa cosa che amare la lettura. Certo, di solito che ama leggere ama i libri, e viceversa. Ma leggere è sempre più (e sarà sempre di più) un attività molteplice. Internet, giornali, riviste. Una casa editrice di questo tempo deve sapere navigare in questa molteplicità, di cui deve essere un nodo e un elemento di ricerca.
Ma poi una casa editrice ha un compito specifico, che è solo suo. Produrre quegli oggetti chiamati libri. Che, come ogni oggetto materiale, hanno tanti usi. Leggere, certo. Ma anche godere della loro vista, del contatto e dell'odore della carta, dell'aspetto e dei colori della copertina. Un libro, inutile negarlo, è anche un oggetto che popola una casa, un ufficio, una sede di un'associazione. Una libreria è come una parete coperta di quadri, che parla di chi ha scelto quei quadri oltre che di chi li ha dipinti.
Per questo una casa editrice non è solo (come scrisse Roger Chartier) una selezionatrice dall'abbondanza di possibili testi. Ma è anche un posto dove un testo diventa l'oggetto libro. Un compito altrettanto importante.

13 commenti:

Carlo Scognamiglio ha detto...

A proposito di che cos'è e cosa dovrebbe essere una casa editrice:
qualche mese fa, nella ricerca di un editore per il mio libricino, ho fatto tante esperienze interessanti, che mi hanno indotto riflessioni su ciò che "di fatto" è oggi una casa editrice. Non sto a raccontare gli scambi di mail (e di insulti) con alcuni editori più o meno grandi, ma il tutto mi ha indotto una volta a raccontare questo vissuto. Mi permetto di segnalarti il link: http://carloscogna.blogspot.com/2008/07/cosa-sono-diventate-le-case-editrici.html

Alessio Aringoli ha detto...

L'ho già letto :).

Carlo Scognamiglio ha detto...

Il supporto fisico in cui l'opera spiritale viene impressa è certo ontologicamente necessario, ma del tutto secondario. Ciò si riscontra nelle motivazioni dell'autore, che restano invariate e sono indifferenti (nell'atto della creazione) rispetto alle qualità materiali del futuro libro. Ritorna nell'atto di riconoscimento del lettore, che (si spera) scelga il libro per il suo contenuto e non per la qualità della rilegatura. Il "contenuto" dovrebbe dunque rimanere la priorità dell'editore, la cui "mission" non è stampare, o come dici tu "produrre libri" (i libri infatti li produce l'autore), ma prima di tutto diffondere idee, culture, riflessioni e quant'altro: svolge una funzione culturale prima che produttiva, e lo fa anche quando crede di essere un semplice industriale: in quell'indifferenza per i contenuti, trasmette un potente messaggio culturale.
Interessante poi è quanto scrivi a proposito della libreria come strumento di comunicazione, tale da raccontare qualcosa del possessore della stessa. Anche qui c'è qualcosa che condivido, però, in una riflessione sul Libro, non tiene sufficientemente conto di tutti i lettori che non ritengono necessario (come me) il possesso del volume, e siccome non potrebbe comprare né conservare tutti i libri che legge ricorre felicemente alle biblioteche pubbliche (anche il rapporto con queste ultime secondo me dovrebbe essere terreno privilegiato di un buon editore, ma questa è una cosa dimenticata: se non ci pensa l'autore a portare un volume in biblioteca, stiamo freschi!).
I più assidui lettori inoltre sono spesso costretti a dare via i volumi in eccesso, oppure a nasconderli negli scandinati.... come dire, il valore materiale del libro è certo un valore, ma non solo è del tutto estrinseco rispetto ai contenuti, che ne prescindono, perché di Hamlet ci sono migliaia di versioni tipografiche, che non alterano, né migliorano, né peggiorano in alcun modo la qualità del testo.
Esso è certamente un valore per il lettore meno raffinato, per il "poseur", per chi, appunto usa i libri come oggetto d'arredo, e di solito non li legge né li comprende.

Alessio Aringoli ha detto...

I testi li produce l'autore. I libri li produce l'editore. L'idea che il "materiale" sia "necessario, ma secondario", a me sembra un residuo idealistico, molto diffuso, non a caso, in Italia - ma a ciascuno le sue opinioni.

Carlo Scognamiglio ha detto...

Scusa in che senso "idealistico"? Nell'idealismo non c'è affatto la materia...e per converso solo nel materialismo non-dialettico (per così dire) c'è solo la materia e non v'è posto per lo "spirito".
Questo motivetto del "residuo idealistico" me lo sento ripetere spesso (anche se non lo trovo offensivo), però francamente non lo capisco.

Io mi riferivo alla stratificazione del "prodotto" spirituale, che ad esempio c'è in Hartmann, ma anche in Lukàcs (tutti italianissimi, ovviamente).
L'opera d'arte, per dirne una in breve, certamente si fissa su una materia, ma non è quella materia, e anzi, può essere evocata senza quella materia e trasferita su altro. Pur non avendo sottomano il primo volume della Divina Commedia posso ben leggerla altrove, così come posso portarla a memoria.
Immaginiamo che i posteri (da anni privi di libri) trovino un volume, senza conoscere la lingua o cosa sia la scrittura... pensi che possano indentificare quell'oggetto o che lo usino soltanto come rialzo per una gamba del tavolo?
Tu scrivi che l'autore produce il testo e l'editore il libro? Ma se la metti così allora il libro lo produce il tipografo, visto che l'editore, dopo aver scelto il testo lo manda in tipografia per la stampa (il file non è ancora un "oggetto" da mettere sullo scaffale).

Alessio Aringoli ha detto...

La scelta di un progetto grafico. Di una specifica copertina, e di un formato. Di determinate norme redazionali per l'editing, e la loro applicazione nelle circostanze specifiche di uno specifico testo. L'impaginazione, che per ogni libro pone problemi specifici. Le caratteristiche della carta. Sono problemi, questi che interessano poco i grandi trust (ma spesso anche le medie case editrici), se non nel senso di risparmiare il più possibile. Molti usano volentieri l'argomento "che quello che conta è il testo", per giustificare sciatteria e disattenzioni che sono il prodotto di una sapiente congiura tra ideologia idealistica e pressapochismo da imprenditoria cialtrona. Naturalmente non parlo di te. Ma la scarsa conoscenza e attenzione riguardo al lato materiale dei processi è un vezzo tipicamente italiano, su questo non c'è dubbio.

Carlo Scognamiglio ha detto...

Beh, sì,la sciatteria e la passione per la contrazione dei costi in Italia è diffusa (ma non solo da noi), ma con l'esser secondario della materia mi riferivo a un problema filosofico, non a un problema di politiche industriali.

Certo il libro meglio curato è preferibile a quello mal curato, sono particolari che incidono sulla scelta dell'edizione, sulla conservazione del libro, sulla sua fruibilità e poi sul costo del prodotto, ovviamente.

Ma io accennavo alla questione ontologica dell'opera letteraria, dove, mi pare che non vi sia dubbio, "quello che conta è il testo", come dici tu, senza scomodare l'idealismo, che qui c'entri come Pilato nel Credo.

Comunque la mia opinione è che a rigore tutto ciò di cui tu parli (progetto grafico, copertina, formato, editing, impaginazione,) cui aggiungo le strategie di diffusione, dimostrano che quella dell'editoria non è affatto industria di "mattonelle", ma appunto la produzione di beni culturali. L'editore progetta e diffonde; come l'autore, egli fa un lavoro "creativo e ideale"; la vera produzione materiale la fa la tipografia, che è un'attività diversa dall'editoria, su cui l'editoria si appoggia, come la scrittura si appoggia sulla carta.

Carlo Scognamiglio ha detto...

scusa, aggiungo che tutte quelle cose (progetto grafico, copertina, formato, editing, impaginazione, appunto), non sono materia, ma "design", nel senso inglese del termine

Alessio Aringoli ha detto...

Sul piano della distinzione terminologico-filosofica possiamo discutere (la questione sarebbe complessa, e bisognerebbe riprendere il concetto di merce nel Capitale). Più rilevante è essere d'accordo che preservare l'elemento artigianale del lavoro di una casa editrice sia importante anche e soprattutto quando questa casa editrice ha dimensioni relativamente significative.

Carlo Scognamiglio ha detto...

Non v'è dubbio che l'attenzione dell'editore per l'elemento artigianale sia lodevole.

Alessio Aringoli ha detto...

Considera anche che, nella storia dell'editoria, la separazione tra lavoro tipografico e lavoro editoriale è relativamente recente e più formale che reale. In sostanza, si tratta di una esternalizzazione di un aspetto specifico dei costi di realizzazione del libro.

Carlo Scognamiglio ha detto...

anche buona parte del lavoro di editing, varietà delle copertine è formati non è poi così antico
all'inizio del secolo scorso i libri erano quasi tutti uguali

Alessio Aringoli ha detto...

Si e no. La varietà di oggi è certo un fenomeno relativamente recente, con motivazioni sia commerciali che culturali. Ma la correzione delle bozze, la realizzazione delle copertine, la scelta delle caratteristiche dei caratteri, della carta e dei formati sono antiche quanto il mestiere.